Quella che segue è la discussione generale contenuta nella sottosezione "Counseling filosofico" della versione 1.0/2001.
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Da un punto di vista descrittivo, nel discutere della consulenza filosofica non si può prescindere, allo stato attuale delle cose, dalle molteplici difficoltà nella individuazione di uno spazio di esistenza completamente autonomo. Con ciò non si vuol dire che esso non esiste (non è certo questa la sede per formulare certi giudizi), ma solo che, probabilmente, può essere opportuno parlare della pratica trattando innanzitutto dei suoi territori di confine, sul versante della filosofia tradizionale, da un lato, e su quello della relazione d'aiuto di tipo psicoterapeutico,
dall'altro.[1]
Nel corso della storia troviamo diversi esempi di filosofi che sono stati mentori, consiglieri e tutori di reali, politici, ecclesiastici e di chiunque altro abbia chiesto il loro servigio. Per citarne alcuni: Platone fu consigliere di Dioniso II di Siracusa, Aristotele tutore di Alessandro Magno; altri casi vi furono nella Roma antica, ellenizzata (es. Seneca e Nerone); più su, nei secoli, Hobbes fu tutore del principe Carlo II, Locke consigliere della famiglia del primo Conte di Shaftesbury, Descartes della regina Cristina di Svezia. Il Rinascimento italiano, soprattutto, fu pieno di pensatori e filosofi di
corte.
Ma veniamo più vicino a noi. Alcuni anni fa, l'ex-presidente francese François Mitterand, gravemente ammalato, ebbe un incontro privato con il suo amico e filosofo Jean Guitton, per discutere intorno alla delicata questione «Qu'est-ce que c'est la mort?». Non sono noti i contenuti della loro conversazione, molto privata. Qualche quotidiano scrisse che Guitton, da pensatore cristiano qual era, aveva parlato di ciò in cui credeva, Cristo e l'Aldilà, argomentando com'era solito fare, in modo lento e armonioso, presentando le sue opinioni e sviluppandone lentamente la trama, arricchendola con citazioni e
ricordi.
Prima di proseguire facciamo un passo indietro, ricordando un precedente storico di ben altra natura, che qui va certamente considerato: il caso dei Sofisti, nell'Atene del V-IV secolo a.C. La gran parte di essi, per quanto se ne voglia discutere, intese non solo insegnare retorica, o arti analoghe, ma pretese probabilmente di insegnare e fornire cose come la "sapienza", la "verità" o quant'altro si presume, non senza buonsenso, sia lungi dall'essere indiscusso, unico, definitivo. E la critica può divenire ancor più pesante qualora si pensi alla richiesta di compensi, solitamente avanzata, che presuppone che essi pretendessero, almeno nelle loro intenzioni, di fornire davvero qualcosa di valore, o di senso compiuto ai loro interlocutori, il che può essere molto discutibile. Con la seconda generazione (IV secolo a.C.), il movimento implose, terminando definitivamente, a parere di alcuni in seguito alla mutata situazione storico-politica, nella società ateniese, per altri a causa di caratteristiche strutturali che ne avrebbero prima o poi segnato la
fine.
L'odierna consulenza filosofica, che nasce in Germania negli anni '80 come
Philosophische praxis, essendo poi rielaborata in varie direzioni altrove, in Europa o in USA (negli States si è avuta anche qualche forma più "caciarona", per così dire), si propone, in apparenza, come qualcosa di diverso sia dall'uno che dall'altro filone di precedenti storici in filosofia, tra loro diversi, sin qui illustrati. Essa non è fatta in genere da filosofi di professione (ad eccezione di esempi come quello del prof. Krämer, in Germania), o comunque non ha una propria filosofia e visione del mondo da proporre – non si tratta dunque di attività come quella di Platone, Locke o Descartes, di cui prima si diceva, e neanche di esperienze come quella di Guitton, da cui l'ateo Mitterand si è recato proprio perché filosofo cristiano. Il counseling filosofico, secondo Achenbach, non si ferma ad un solo ed esclusivo sistema filosofico specifico, sia esso quello platonico, heideggeriano, sartreano o qualunque altro. Inoltre, tra gli addetti ai lavori, generalmente si ritiene che non vi sia alcun bisogno di essere un "grande" della filosofia, per fare consulenza filosofica. (Alcuni ribaltano addirittura la posizione, forse esagerando, notando che l'esser "filosofo", a differenza ad esempio dell'avvocato, dell'architetto o del biologo, è da sempre stato titolo vago o pressoché inesistente, all'interno della società, salvo che nei casi noti della storia della filosofia, e potrebbe intravedersi un'accezione "meno forte", diciamo, cioè più estesa e comune del ruolo del filosofo, proprio all'interno della pratica filosofica. La cosa potrebbe avere alcuni pro, ma anche molti contro, derivanti appunto dalla popolarizzazione della professione, o, peggio ancora, da un eventuale imbarbarimento dell'immagine della disciplina.)
Non dovrebbe trattarsi comunque neanche di "sofismo", almeno in senso stretto, poiché, sebbene vi siano di mezzo compensi e parcelle professionali, i counselor filosofici si guardano bene in genere dal presumere e dichiarare di fornire certezze, soluzioni, successo assicurato e altro di analogo. Più difficile è difendersi dalla critica di "compiacenza" nei confronti del consultante, a discapito dell'onestà intellettuale. Alcuni ritengono tuttavia che le cose non stiano così. Marc Sautet, ad esempio, animatore dei caffè parigini e counselor filosofico (egli è stato anche accusato di aver avviato il suo
cafè philò come "copertura" del suo studio privato di consulenza), così rispondeva a tali critiche: «Quel che le malelingue chiamano "prostituzione" è innanzitutto questa disponibilità, questa ricettività del filosofo. Cosa che non implica affatto l'abbandono di ogni rigore e di ogni riferimento a vantaggio del piacere del cliente [...] In questo colloquio, il filosofo ascolta, più che parlare, e non introduce riferimenti che per far progredire l'interlocutore al suo ritmo personale».[2]
La letteratura giornalistica anglo-americana, in particolare, è ricca di accuse di cialtroneria e sofismo, e, occorre precisarlo, il bersaglio è generalmente la concezione di counseling filosofico di Louis Marinoff e colleghi, della nota associazione newyorkese APPA (American Philosophical Practitioners Association), che hanno fatto della pratica un grande
business, soprattutto sull'onda della diffusione della New Age, della moda dei pensieri orientali (da essi costantemente richiamati), delle medicine alternative e di altre tendenze analoghe. Vediamo alcune delle critiche a loro
indirizzate.
«Ecco l'idea che il professore americano ha del proprio commercio. Il filosofo non ci guida più verso la verità, mediante l'attivazione della nostra personale capacità di ragionamento. Tutt'altro, egli mostra un catalogo, ovviamente ben aggiornato, di "sistemi di credenze", aiutandoci a trovare quella che meglio fa per noi. E nessun dubbio nel convincere il cliente di aver investito bene i propri soldi; il "sistema di credenze" prescelto vestirà addosso perfettamente, soprattutto se illustrato mediante concetti molto vaghi e se prezzato in maniera tale che il cliente troverà necessario, da un punto di vista psicologico, persuadere se stesso di essere stato davvero curato».[3]
Ancora: «Pretendendo di prendere spunto da grandi filosofi come Socrate, Lou Marinoff crede di legittimare ciò che egli definisce la "consulenza filosofica". La cosa assomiglia stranamente al movimento sofistico che Socrate, Platone e Aristotele disprezzarono così tanto: i "consulenti filosofici" hanno una clientela pagante a cui elargiscono "saggezza" adoperando un metodo pragmatico, casistico, che presumibilmente dovrebbe portare a illuminazioni attraverso una strana combinazione di tolleranza, coerenza e un vasto assortimento di visioni del mondo
prêt a porter».[4]
E persino in Cina: «La pratica filosofica potrebbe essere l'ultima riscossa dei sofisti, travestiti da filosofi. Attenzione, sono arrivati dagli USA e anche la città di Hong Kong ne è ormai piena; potreste ritrovarveli in ufficio, o direttamente a casa vostra».[5]
Tanto certamente può bastare. Ricordiamo che critiche del genere, così forti e radicali, non sono mai state rivolte a personaggi, se non altro più composti e problematici, appartenenti ad associazioni di nazioni del Vecchio Mondo. Il caso di Marinoff e della sua organizzazione, anche negli stessi USA, è alquanto anomalo, molto imbarazzante, e, probabilmente, qualunque critica non potrà mai essere in fondo così severa, nei confronti di questo professore di liceo e businessman newyorkese, se pensiamo che nel suo attuale best-seller, venduto in milioni di copie in tutto il mondo, egli scrive, con la scusa della divulgazione filosofica, cose del tipo che i Cinici e gli Stoici erano "presocratici", o che Kant era un "razionalista"
(sic!), tanto per citare solo due dei numerosi esempi di errori grossolani, fraintendimenti e stupefacenti superficialità di cui è stato capace.[6]
Certo, a giudicare dal suo esempio, cui fa da contrappunto probabilmente una certa faciloneria del prossimo, oggigiorno, viene addirittura da chiedersi come sia possibile continuare a far filosofia nella società, dopo questa clamorosa
disfatta...
Ma riprendiamo le fila del discorso, continuando con un ultimo punto, sul confine tra filosofia tradizionale e pratica filosofica, dopodiché passeremo sull'altro versante di contatto, quello con la
psicologia.
Con il termine composto di "filosofia applicata" si intende generalmente la discussione delle conseguenze logiche di principi e sistemi filosofici in circostanze specifiche, oppure la riflessione filosofica, per lo più di natura etica, su importanti questioni del nostro tempo, generate soprattutto dai cambiamenti economici, scientifici e tecnologici della società attuale. L'etica biomedica, o la bioetica in generale, l'etica economica (o degli affari), quella computistica, quella ecologica o ambientale sono alcuni tra gli esempi più noti di utilizzazione (iniziata a partire almeno dagli anni Settanta) di strumenti e concetti filosofici per analizzare e tentare di risolvere problemi del mondo reale, mettendo alla prova i precetti che derivano da questa o quella teoria dell'agire etico in nuove circostanze storiche. Esempi ben noti delle questioni più dibattute sono l'aborto, l'eutanasia, le biotecnologie, l'ingegneria genetica, o anche i doveri dell'operatore economico, l'impiego di immigrati irregolari, le manifestazione di odio via Internet, le discussioni sullo sviluppo compatibile con l'ambiente, l'eliminazione di rifiuti tossici,
ecc.
La pratica filosofica si differenzia dall'etica applicata almeno sotto due punti di vista. In primo luogo, non v'è un sistema privilegiato di principi da mettere alla prova in situazioni specifiche, sebbene sia possibile in entrambi i casi discutere di diverse prospettive possibili. In secondo luogo, non si hanno di mira problemi di vasta portata, come quelli menzionati, ma si parte da questioni personali, cui ovviamente possono far da sfondo problemi di più ampio respiro. Semplificando al massimo: l'una prospettiva parte di solito dal generale per arrivare al particolare, l'altra sembra compiere il percorso inverso. Per certi versi, tuttavia, la separazione può essere molto difficile da definire, come nel caso della "bioetica clinica" e dei suoi operatori che,
vis-à-vis, in ospedali, centri di assistenza o ascolto, hanno di certo a che fare contemporaneamente sia con grosse questioni etiche che con problemi personali, nell'immediatezza e corporeità di un singolo individuo, della sua storia, delle sue aspettative e prospettive reali
d'esistenza.
Sul versante delle psicoterapie, le critiche nei confronti della pratica filosofica sono meno accese, per non dire addirittura assenti. E le ragioni di ciò, probabilmente, sono molteplici. Innanzitutto, in nazioni come gli USA, cioè là dove, come già ricordato, la pratica ha raggiunto livelli di grande visibilità, psicologia e filosofia fanno spesso parte di un percorso universitario affine di studi, cioè quello umanistico, che porta al
Master of Arts. Questo fatto e l'assenza, tra l'altro, di rigidi albi professionali del tipo di quelli italiani, probabilmente, fanno sì che risulti meno forte, o spregiudicata l'idea che anche un laureato in filosofia possa occuparsi di relazioni d'aiuto e di consulenza privata. Tanto per fare solo un esempio, nell'articolo di Roger Scruton sul
Times, già citato in precedenza, molto critico verso il counseling filosofico, a proposito dell'argomento in questione ci si limita a considerare che «gli psicoterapeuti americani hanno abbassato frettolosamente le loro tariffe in risposta all'unica concorrenza che gli sia mai stata fatta, dopo il collasso delle religioni
tradizionali».[7] Anche in altri articoli polemici verso la consulenza filosofica, generalmente, psicologia e psicoterapia sono tenute in disparte, rispetto alle esemplificazioni di problemi esistenziali o dilemmi di natura etica in essi considerati. E questo significativamente accade, per dire, anche in giornali di stati puritani come quello di New York (cfr. ad es. P. Applebome, "Think Tank. Very Espresso Philosophy",
The New York Times, New York, 9 gennaio 1999; E. Rothstein, "Philosophy Illuminates Minds Darkened by Misfortune",
New York Times, New York, 29 marzo 1999), del Massachusetts e simili. Su una rivista di ispirazione cristiana di Boston, ad esempio, si può trovare quanto segue: «Supponiamo che tu sia intrappolato in un intricato problema etico o morale, in famiglia o sul lavoro; o che tu voglia sposare qualcuno di un'altra fede religiosa, con valori culturali diversi, e una relazione fondamentalmente agitata; ebbene, non c'è niente di sbagliato in te, da un punto di vista medico o psicoterapeutico. Senza essere etichettato o classificato, dunque, puoi evitare di consultare uno psicoterapeuta, per recarti invece da un couselor filosofico».[8]
In altri casi, addirittura, v'è un certo compiacimento del fatto che l'eccessiva psicologizzazione o medicalizzazione di situazioni, vicissitudini e determinazioni umane possa subire una certa limitazione, o inversione di tendenza per un motivo o per un altro, dunque anche, in maniera certamente fungibile, a causa della consulenza filosofica. Un particolare non trascurabile tuttavia è che negli
Stati Uniti molti consulenti filosofici sono anche psicologi o psicoterapeuti, che adoperano la pratica filosofica come percorso formativo e operativo aggiunto, e questo rimette quindi tutto in
discussione.
Guardando le cose da un punto di vista più generale, la questione è che la terapia psicologica, in varia misura, ha da tempo abbandonato paradigmi come quello, ad esempio, della psicanalisi freudiana. In esso, come ben noto, lo psicanalista pone una serie di domande e collega le risposte del paziente e altri
output in maniera tale che questi non abbia la minima comprensione del significato di quanto viene a delinearsi nel corso dell'interazione. Classica, da questo punto di vista, è la posizione della sedia, o della poltrona dello psicanalista, spostata sempre al di qua del lettino, per non mostrare neanche la minima reazione del viso, qualora ci sia, nell'udire ciò che dice il paziente. Molte terapie attuali, invece, sono non-direttive, certamente meno rigide e con una relazione interpersonale più naturale, ordinaria. Il dialogo in esse è spesso di tipo aperto, in cui le domande e i ragionamenti servono tanto al terapeuta per conoscere meglio il cliente, quanto al cliente per capire meglio se stesso o chiarirsi le idee su alcuni punti. Ebbene, questo tipo di atteggiamento può essere rintracciato anche nella consulenza filosofica, ma ciò non vuol dire che essa sia una vera e propria relazione d'aiuto, poiché occorre considerare che qui si sta parlando, in fondo, di qualcosa che si approssima di gran lunga all'interazione comune tra gli esseri umani, alla chiacchierata tra amici, o conoscenti, e tutto ciò, in quanto tale, evidentemente non ha natura terapeutica, se non in un senso molto lato e
indiretto.
Nella seconda metà del ‘900 numerosi psicologi e psicoterapeuti hanno considerato l’indagine filosofica come elemento fondamentale della loro attività (terapia centrata sul cliente, razionale emotiva, analisi transazionale, esistenziale e altre terapie umanistiche). Carl
R. Rogers, per fare un esempio, ha definito l’ultima versione della sua
Client-centered therapy come un approccio filosofico al counseling (sostituendo il concetto di guarigione con quello di crescita psicologica). Viktor Frankl ha parlato della possibilità che problemi di tipo "noematico" nella vita – cioè questioni di senso, di significato – possano condurre a scompensi di natura psicologica e persino biologica. Queste e altre determinazioni della psicologia non hanno destato molte polemiche. Nessuna di esse può infatti definirsi una pratica “filosofica”, almeno in senso stretto, rappresentando più che altro nuove tendenze nella psicoterapia di tipo umanistico. Il fatto tuttavia è che, così stando le cose, alcuni filosofi con competenze psicologiche e psicoterapeutiche hanno rivendicato la possibilità di esercitare in maniera autonoma attività analoghe. Cioè quando la relazione psicologica d’aiuto si è aperta alla filosofia, ad alcuni è sembrato lecito far compiere alla filosofia il percorso inverso. Negli anni ’70, l'americano Peter Koestenbaum, all'epoca professore di filosofia presso il San Jose State College, in California, ha coniato il termine “Clinical philosophy” per indicare il proprio tentativo di coniugare la filosofia (su base fenomenologica ed esistenziale) con psicologia e psicoterapia. Il suo esempio è stato seguito da altri filosofi negli States e non solo (attualmente, ad esempio, anche in Giappone esiste un centro di
Clinical philosophy). La Philosophische praxis di Achenbach e colleghi, poi, pur non essendo affatto "clinica" o "psicoterapeutica", è confluita, almeno in USA, nelle varie iniziative in corso, il che ha fatto sì che le cose in qualche senso finissero per confondersi. Oggi i
practitioner statunitensi, di cui molti, come già ricordato, dalla duplice natura di psicoterapeuti e filosofi, si definiscono semplicemente "philosophical counselor", proprio come i filosofi consulenti di mezza Europa e del resto del
mondo.
Sembrerebbe dunque, in apparenza, che si possa parlare di almeno due differenti impostazioni del counseling filosofico attuale. Ma non è così. Nella filosofia clinica di Koestenbaum e colleghi, infatti, oltre a una buona conoscenza della filosofia (di cui si richiama soprattutto "il modello fenomenologico dell'essere" e la "teoria esistenziale dell'individuo"), si richiedono anche competenze in psicologia o psichiatria, esperienze di pratica clinica,
training psicoterapeutici. Essa ha chiare finalità terapeutiche, con dinamiche e processi per lo più inscritti, direttamente o indirettamente, nel paradigma medico tradizionale “malattia-diagnosi-cura”. Questa attività, a rigori, non dovrebbe definirsi consulenza "filosofica". Nella
Philosophische praxis e nella pratica di coloro che ad essa si ispirano, invece, tutto ciò non esiste, poiché l'idea fondamentale è quella di conversare e riflettere su problemi ordinari degli individui, come dubbi, questioni esistenziali, dilemmi morali, indecisioni, scelte di vita, ecc., cioè si tratta comunque di un'attività che, come affermato più volte da Achenbach, si offre come “alternativa alla psicoterapia” e non come “psicoterapia alternativa”.
Christopher McCullough, psicologo e counselor filosofico californiano dell’Institute for Clinical
Philosophy (ICP), di San Francisco, adopera la denominazione “Clinical philosophy” per descrivere il lavoro di consulenti, o practitioner formati sia in psicologia che in filosofia, e “Philosophical counseling” per l’attività di coloro che non hanno titoli o certificazioni in psicologia, o psicoterapia, ma solo in filosofia. Achenbach stesso ha aspramente polemizzato con gli approcci psicoterapeutici in filosofia (accusandoli di creare, come tutte le psicologie, realtà immaginarie “secondarie” quando interpretano questioni o disturbi nei termini esclusivi di una teoria specifica), ribadendo la natura essenzialmente “filosofica”, appunto, della pratica
filosofica.
Altre questioni sono ancora aperte, come ad esempio quella se sia o meno possibile, o in che misura, “filosofare” insieme a gente con problemi di natura mentale, o sotto l’effetto di psicofarmaci. Il problema concerne innanzitutto la distinzione tra sanità e malattia, soprattutto nei casi di psicopatologie di lieve entità. Quanto poi agli psicofarmaci, Paul Sharkey, psichiatra e consulente filosofico statunitense, attualmente vice presidente dell'associazione APPA, già menzionata in precedenza, ha descritto vari casi di persone che solo dopo l’inizio di terapie farmacologiche sono state in grado di affrontare una riflessione filosofica, mentre in precedenza ciò non era affatto possibile. Egli attribuisce la cosa al ripristino di opportune condizioni
fisiologiche.
Shlomit C. Schuster, practitioner israeliana molto attiva e di ispirazione achenbachiana, afferma invece trasversalmente alle cose appena dette, e aggirando ogni discussione su sanità e malattia, di offrire la propria consulenza a chiunque sia in grado di intendere e volere, nel senso di essere sufficientemente responsabile per partecipare alla vita sociale e culturale. Appellandosi ai principi della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, aggiunge poi che a suo parere negare agli individui la scelta della consultazione filosofica, a priori, sulla base di una presunta condizione psicopatologica, è sicuramente discriminatorio da un punto di vista etico e
sociale.
Per dare forma giuridica alla propria professione e, per un calcolo economico, soprattutto per far sì che il cittadino americano possa rivolgersi al counselor filosofico giovandosi del rimborso della propria
Health Assurance, nel 1998 Lou Marinoff e l’associazione APPA, appoggiati da un politico newyorkese che ha preso a cuore la faccenda, hanno presentato presso la New York
State Assembly una proposta di legge concernente il riconoscimento statale di termini come “philosophical practitioner”, “philosophical counselor” e di servizi come “philosophical counseling”, “practice of philosophy”, “philosophical assistance”, “philosophical exploration”, ecc., con la richiesta di costituire una commissione ufficiale, fatta di undici membri più un segretario esecutivo, tutti practitioner filosofici autorizzati dallo Stato di New York, cui fosse affidato il compito di rilasciare una licenza per chi volesse esercitare la professione. Sono seguite numerose critiche, sia in USA che nel resto del mondo. Agli occhi dei practitioner americani residenti in altri stati sono sembrate discriminanti le condizioni proposte da Marinoff e colleghi. In Europa e in altre parti del mondo, invece, la stessa “sensatezza” della proposta è stata criticata, poiché se l’attività è pienamente filosofica, cioè non ha finalità terapeutiche, dirette e dichiarate, la regolamentazione appare inutile; d’altra parte, se l’attività è di natura psicologica o psicoterapeutica, non si capisce perché richiedere una forma giuridica per una professione che già da tempo, in un modo o nell'altro, è comunque regolamentata. La Schuster, tra i principali oppositori della proposta, ritiene addirittura che essa potrebbe costituire un serio precedente in fatto di “limitazione della libertà” per l’esercizio filosofico in ambito
internazionale.
Insomma, le questioni finora considerate sono molto delicate, controverse e tuttora in discussione. Quello del counseling filosofico è di certo un mondo relativamente nuovo e ancora in costruzione – se mai vi sarà per esso un futuro. Per questi e altri motivi, all’interno della presente sezione le varie associazioni e i centri al momento recensiti non sono stati collocati in pagine distinte, sulla base delle diverse concezioni e prospettive di lavoro. Per ogni indicazione o chiarimento sulle singole organizzazioni, quando possibile, si rimanda dunque al rispettivo commento.