|
Adversos
Philosophastros
(a) Scrive un consulente filosofico, ospitato
su una rivista filosofica piuttosto seria, che «la
filosofia della scienza novecentesca [ha colmato] la separazione della sfera "pratica" da
quella "teoretica"[o "teorica"?!]
[...] giungendo a sostenere – con Thomas Kuhn e Paul Feyerabend[?!]
– che perfino ogni nostra percezione è già "impregnata di
teorie" e perciò ogni agire pratico è conseguenza della nostra
visione del mondo, sia essa dettagliatamente resa esplicita, sia essa
semplicemente presupposta in modo implicito».
COMMENTO: Passi per la sottile differenza fra
"teoretico" e "teorico", alquanto discutibile,
quanto a sovrapposizione di aree semantiche, ma sicuramente non può
passare inosservata l'idea che la filosofia della scienza abbia dovuto
aspettare Kuhn e Feyerabend per asserire che la prassi scientifica sia
impregnata di teoria. Prima di loro, nella fattispecie, è stato Popper
a farlo (con la riabilitazione della metafisica e il dibattito su temi
analoghi). Kuhn e Feyerabend, come noto, ciascuno a suo modo, ne hanno
soltanto esteso e ri-discusso la rilevanza ai fini epistemologici. Il Poscritto
alla Logica della scoperta scientifica (1983, 3 voll.), di Popper, offre
un'ampia
panoramica dell'argomento.
Altrove,
in una nota, il consulente in questione cita il «procedimento per
"prova ed errori" di Karl Popper, per il quale la verifica[?!!]
nella pratica delle teorie è condizione del loro miglioramento».[Sic!]
COMMENTO: Probabilmente, Popper avrà fatto qualche giro nella
tomba quando la frase veniva scritta. Celiare a parte, è a dir poco
assurdo che, nonostante la ben nota polemica su verificazionismo e
falsificazionismo, ci sia qualcuno che parli del teorico delle
congetture e confutazioni (Conjectures and refutations) come di
un "verificazionista". La vita è davvero paradossale...
(b)
Scrive un consulente filosofico aziendale, su una rivista di
settore, che «le forme possibili del dialogo filosofico [attenzione, non della
consulenza, ma del "dialogo"] sono molteplici, individuali[?!] e
collettive». Si sente parlare di "consulenza" individuale, ma non di
dialogo. E che? È forse un dialogo interiore? La "consulenza"
individuale, ovviamente, è un dialogo a due persone, non un
dialogo individuale.
COMMENTO: Soltanto una svista? Può darsi. La "perla", tuttavia, viene più avanti. Nello stesso capoverso (il secondo della pagina),
sono esplicitate le due forme possibili di dialogo "filosofico" cui
il consulente aziendale in questione si riferisce: «[...] La forma
individuale[?!]
è essenzialmente riconducibile all'esercizio del dialogo filosofico pratico quale è praticato nella consulenza filosofica; le forme collettive al
dialogo socratico, alla Philosophical Enquiry e ai setting di riflessione organizzativa appartenenti alla tradizione
dell'Action Learning e della Action-Research»[?!].
COMMENTO: È senz'altro estemporaneo e del tutto arbitrario
paragonare dialogo socratico, Philosophical Enquiry e altre pratiche filosofiche
all'Action Learning o alla ricerca-azione. Per dissipare ogni
dubbio, si rimanda al relativo approfondimento contenuto in queste pagine.
[Cfr. §§ E1.3.2
(c1), E1.3.2
(h1), E1.3.2
(i1), E1.3.2
(j1), E1.3.2
(j2)]
(c)
Sostiene un ex segretario nazionale dell'Adif (Associazione
Docenti Italiani di Filosofia), in un suo libro sulla consulenza, che la pratica filosofica si possa denominare anche «"filosofia pratica"[?!],
come alcuni preferiscono denominare il
philosophical counseling».
COMMENTO: Ovviamente, la "pratica filosofica" e la
"Filosofia pratica" sono due cose completamente diverse tra
loro. Inutile aggiungere altro.
La prima impressione, in realtà, è che si tratti di una svista, oppure
di un errore di stampa. Scorrendo le altre pagine del lavoro, tuttavia,
ci si rende conto che le due denominazioni sono adoperate in maniera
intercambiabile almeno un altro paio di volte. Il dubbio che ci sia
sotto qualcosa di più che un lapsus, purtroppo, c'è.
(d)
Afferma un ordinario di Filosofia teoretica: «Se l'esperienza
buddhista è per molti versi indicata a rappresentare questa forma di
saggezza [quella di cui sta trattando], anche la cultura occidentale
presenta figure e momenti che costituiscono esemplificazioni
significative di tale atteggiamento. Penso per esempio all'epoché,
cioè appunto a quell'atteggiamento (qui ho in mente soprattutto Husserl[?!])
mediante il quale il soggetto prende radicalmente le distanze da tutte
le sue "costruzioni" mentali senza per questo in alcun modo
annullarle o sconfessarle».
COMMENTO: L'epoché husserliana non può in
alcun modo essere paragonata all'esperienza buddhista; e questo è un
fatto noto. (Sic!)
Probabilmente, il professore avrebbe fatto meglio a riferirsi, in
qualche senso, all'atarassia (in gr. ataraxia,
imperturbabilità), già presente in Democrito, a livello terminologico,
ripresa e ampiamente discussa nelle scuole post-aristoteliche. Presso
scettici e neo-accademici essa divenne conseguenza della
"sospensione del giudizio", o epoché. Husserl,
tuttavia, non c'entra niente con tutto ciò; egli ne ha preso le
distanze e ha più volte ribadito la cosa, nelle sue opere. La sua
"epoché" ha valore metodologico, conoscitivo, esplorativo,
gnoseologico e simili: insomma, è una porta d'accesso al
pre-categoriale, ma non una disposizione etica. Nulla ha a che fare con
cose come il piacere catastematico, il distacco dalle passioni o da
altre forme di interesse soggettivo.
|