RITORNA

RITORNA, DOLCE TERRIBILE OMBRA!

[Amleto – Evocazione notturna dello spettro del padre]

Alessandro Volpone-Annarita C. Pugliese   

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In una prospettiva di storia ‘interna’ della philosophy for children, in Italia, la fase attuale appare segnata da eventi certamente nodali. Ricordiamo innanzitutto l’importanza del primo corso nazionale di formazione – svoltosi a Frascati nel luglio scorso, con la conseguente più ampia e qualificata pratica del curricolo sul territorio, mediata da nuove possibilità di raccordo delle esperienze, compiute o in via di svolgimento, e migliori occasioni di scambio comunicativo: il prossimo corso di formazione nazionale, previsto tra un paio di mesi, non potrà che saldare la continuità, potenzialmente intravista, e amplificare le tracce menzionate. Merita attenzione, d’altronde, anche l’edizione completa dei racconti di Lipman editi dalla casa editrice Liguori, di Napoli – che certamente consente e consentirà una più agevole sperimentazione del curricolo nel futuro prossimo.

Ma per ricominciare davvero a parlare di philosophy for children, quest’anno, nel nostro paese, non si può prescindere da una breve digressione che segua soprattutto una prospettiva di storia ‘esterna’ alle vicissitudini cui si è appena fatto cenno. Si tratta di eventi di importanza probabilmente ‘epocale’ concernenti la mutata situazione della filosofia in Italia. Diciamolo subito: pare che la filosofia, anche da noi, finalmente, stia tornando in mezzo agli uomini. Infatti, il recente bisogno culturale e sociale diffuso di filosofia, all’interno della comunità umana reale (concernente soprattutto le assunzioni di senso e di responsabilità nei confronti delle nuove questioni morali, sociali, politiche generate dai complessi meccanismi del mondo contemporaneo – per il singolo o per la collettività), fuori e dentro i luoghi tradizionalmente riconosciuti di creazione e trasmissione del sapere filosofico, sta ricevendo una qualche risposta concreta. La routine filosofica, sia come esercizio che insegnamento, va riscoprendo istanze originarie che il dialogo ateniese – pratico, paritario, collegiale, pubblico, democratico – magnificamente seppe esprimere e che troppo a lungo la filosofia ha scordato, nel corso del tempo.

Gli eventi cui ci si riferisce possono essere distinti, in prima approssimazione, in istituzionali e non-istituzionali, riferendosi con ciò sia al modo assistito e guidato di perpetuare la filosofia che solo la scuola può garantire e sia ad ogni spazio sociale disponibile in cui nasca un qualche dialogo che si differenzi dalla mera (comunque rispettabile) “chiacchierata” tra amici – e divenga nella fattispecie filosofico. Troviamo infatti, con stupore ma non troppo, da una parte, le proposte avanzate dalla Commissione nazionale di studio (costituita con D.M. 25/5/1999 e successive modifiche e integrazioni) concernente la possibilità di estendere l’insegnamento filosofico nel biennio terminale della scuola dell’obbligo riformata, nonché in tutti i trienni terminali della scuola secondaria, e, dall’altra, il diffondersi della pratica filosofica in quanto abito culturale e sociale all’interno dei cosiddetti «caffè philò», nelle «conversazioni socratiche» e nel «counseling filosofico» - tutti approdati di recente nel nostro paese.

Si badi bene, non si tratta della ennesima critica sulla eccessiva ‘universitarizzazione’ della filosofia, sulla sua astrusaggine o sugli eventuali scollamenti rispetto alla realtà; o, almeno, non è solo questo – il che equivarrebbe a esorcizzare un demone già stanco, magari addormentato. Qualcosa di diverso sta invece accadendo, che sicuramente esula dalle ormai inutili polemiche cui siamo abituati, da lungo tempo. Schopenhauer apriva il suo agile volumetto intitolato Uber die Universitäts-Philosophie (1851) scrivendo: «Che la filosofia sia insegnata nelle università, le riesce indubbiamente di vantaggio sotto molti punti di vista. In tal modo essa viene ad acquistare un’esistenza pubblica, e il suo stendardo è piantato dinanzi agli occhi degli uomini, cosicché la sua esistenza è continuamente riportata alla memoria e posta in rilievo. […] In generale, però, sono andato gradualmente convincendomi che la suddetta utilità della filosofia cattedratica è superata dal danno che la filosofia come professione reca alla filosofia come libera indagine della verità, al servizio della natura e dell’umanità»[1]. Sono ben note le invettive di Schopenhauer verso la cultura filosofica egemone del suo tempo, espressi ad esempio, a proposito della incomprensibilità, anche in inglese, nel motto «it is like german metaphysics», o in francese, «c’est clair comme la bouteille à l’encre»[2]. Eppure Manlio Sgalambro, partigiano forse inveterato della polemica in questione, ma fin troppo saggio quanto a giudizio e discernimento, nota lucidamente in proposito che posizioni come quella schopenhaueriana altro non racchiudono, eroicamente, se non «il sogno che il genio si riprenda daccapo la filosofia. Il rimpianto che la filosofia non sia più in mano al genio – egli continua – è il vero tema di Uber die Universitäts-Philosophie»[3]. Insomma, pro o contro l’accademismo fa lo stesso: poco cambia fra coloro che sono qualcosa e quelli che lo saranno o, anche, lo rappresentano – inutile sottilizzare. L’accademico puro, il genio solitario o i circoli filosofici esclusivi, oligarchici, sono tutte facce, alternative, di una medesima medaglia – non una ”patacca”, per carità, ma la strada di cui qui si parla è di certo altrove. Gli uomini animati dal desiderio di conferire spessore al quotidiano, semplici cultori ed estimatori di questioni filosofiche e perfino bisognosi di riflettere sui problemi che l’esistenza e la coesistenza continuamente ci pongono, tutti possono fare esperienza di filosofia – e tanto può bastare. Per il resto, si spera solo che la teoresi non sia più semplicemente un modo di riempire i manuali – per troppo tempo strumenti di consumo quasi esclusivamente disciplinare.

Aristotele vedeva nell’esercizio socratico un modello eccelso di filosofia pratica (Et. Nic. VI, 13, 1144b 18, 28), di cui trattò più volte, nella Metafisica, nelle Etiche e nella Politica – riferendo ad essa anche la denominazione di scienza politica, poiché fine ultimo è la ricerca del bene non solo del singolo ma dell’intera comunità (3, 1094 a-b). Anche la filosofia pratica, in quanto filosofia, è ricerca della verità, ma «coloro che hanno per fine l’azione, anche se osservano come stanno le cose, non tendono alla conoscenza di ciò che è eterno ma solo di ciò che è relativo ad una determinata circostanza e in un determinato momento» (Met. II, 1, 993b 20). Aristotele dedica l’intero primo libro dell’Etica nicomachea all’illustrazione del meqodoV dell’indagine in oggetto, dichiarando che intento di essa non è certamente quello di produrre la conoscenza più accurata che si possa desiderare, avendo invece carattere eminentemente «tipologico»[4]. «Ci si deve accontentare quindi che coloro che parlano di queste cose e da esse argomentano mostrino la verità in maniera sommaria e approssimativa, e che quelli che parlano di cose generali e da esse argomentano ne traggano conclusioni pure generali. Allo stesso procedimento occorre che si attenga anche ciascuna delle cose che diciamo; infatti è proprio dell’uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza, quanta ne permette la natura dell’argomento: e sarebbe lo stesso lodare un matematico perché è persuasivo e richiedere dall’o

ratore delle dimostrazioni» (Et. Nic. I, 3, 1094b 19-28).

Che siano possibili richiami all’arte socratica, con o senza riferimento alla successiva speculazione analitico-classificatoria aristotelica, che sarebbe interessante menzionare anche a proposito del concetto di jronhsiV[5], è comunque innegabile che nella situazione attuale della filosofia, in generale, torna a muoversi, finalmente, una vecchia “dolce e terribile ombra” – per dirla con le parole di Shakespeare. Essenzialmente, si ri-scopre una dimensione del filosofare vecchia quanto l’uomo – metafora certamente diversa da quella dell’usignolo che si acceca per farlo cantare meglio! La filosofia torna ad aprire gli occhi, a ri-confrontarsi con la realtà, facendosi individuo concreto, che affronta le piccole grandi questioni che la vita solleva, in ogni età - «Chi è giovane non aspetti a far filosofia, chi è vecchio non se ne stanchi» recita una esortazione di Epicuro.

La pratica filosofica, nelle forme socio-culturali attuali prima menzionate – e va qui puntualizzato che la philosophy for children è certamente tra di esse –, rivendica oggi modalità nuove, pienamente legittime, di accesso al patrimonio concettuale elaborato dalla tradizione, autentico capitale da mettere a disposizione dell’intera comunità umana. Mutatis mutandis, la Commissione nazionale di studio della SFI afferma in proposito che l’accesso alla filosofia – di cui l’insegnamento è una forma – sia da indicare addirittura come un «diritto» del cittadino, ritenendo che «ciò su cui tale diritto verte riguarda non soltanto i contenuti specifici di questo campo del sapere quanto, piuttosto, le competenze e le capacità che, attraverso tali contenuti, l’insegnamento permette di acquisire e che rimarranno come abiti mentali, anche quando i contenuti, col tempo si saranno sbiaditi»[6].

Trattando di “insegnamento” siamo così tornati all’ambito istituzionale, di cui prima si diceva e su cui sarà qui svolta una riflessione conclusiva. Che la trasmissione della filosofia possa avvenire in maniera essenzialmente zetetica (zethin =indagare), come dialogo con gli autori del passato o con i loro testi, magari a partire dai problemi concreti del presente, è noto da tempo – famosa la formula kantiana delle Reflexionen zur Anthropologie (1798) «Non si può insegnare la filosofia: si può solo insegnare a filosofare». Per fortuna, oggigiorno, finalmente, pressoché tutte le indicazioni didattiche concernenti la disciplina in questione possono realmente essere sunteggiate dal monito appena citato. E questo è già tanto. Ma la ri-scoperta della filosofia nella prospettiva di scienza pratica, cui s’è accennato in questa sede, purtroppo, presuppone che dopo l’entusiasmo si passi subito ad esclamare: il meno è fatto! Una cosa è infatti l’obiettivo della comunicazione-produzione-perpetuazione della disciplina, un’altra cosa è quello della “filosofia per tutti”, il quale, nell’ordine e nel grado scolastici ad esso riservati, presuppone un modo diverso, a rigori parallelo e solo in apparenza coincidente, di approcciarne lo studio. Anzi, lo studio filosofico funge quasi da sottofondo a istanze formative forti di tipo trasversale – cioè gli “abiti mentali” di cui si parla nella citazione della Commissione nazionale di studio.

La philosophy for children ha da sempre dedicato particolare attenzione alla riflessione sul pensiero, promuovendo momenti meta-cognitivi e meta-emotivi nelle proprie comunità di ricerca e stimolando con ciò aspetti dell’apprendimento e del comportamento in genere abbandonati a se stessi o al caso, rimasti spesso impliciti e inconsci. Soprattutto ad essa, dunque, occorrerà riferirsi, in ambito istituzionale, se si vuol fare della “filosofia per tutti” un progetto filosofico ma anche un progetto pedagogico al contempo.



[1]  A. Schopenhauer, La filosofia delle università, Adelphi, Milano 1992, pp. 17-18.

[2]  Ivi, p. 56.

[3]  M. Sgalambro, Carpe veritatem, saggio contenuto in ivi, pp. 121-41: 131.

[4]  L'espressione "metodo tipologico" per la filosofia pratica di Aristotele è stata usata nel dibattito contemporaneo in Germania da O. Hoffe, Praktische Philosophie. Das Modell des Aristoteles, München und Salzburg 1971, pp. 187-92.

[5]  Un acuto confronto tra la filosofia pratica e la phrónesis in Aristotele si trova nel saggio di E. Berti, Il metodo della filosofia pratica secondo Aristotele, contenuto in A. Alberti (a cura di), Studi sull’etica di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1988.

[6]  Rapporto programmatorio della commissione didattica nazionale – D.M. 25/5/1999, I nuovi curricoli di filosofia nella scuola riformata: la proposta della SFI, in Supplemento a Comunicazione filosofica, n. 6, 1999.