La Metafisica dei bambini paragonata a quella degli adulti

di Guido Davide Neri (Università di Verona)

Lo spunto di queste riflessioni mi viene dall’essere genitore e aver dovuto confrontarmi con le domande dei bambini; inoltre dall’essere educatore e aver dovuto parlare con gli adolescenti e i giovani. Ma la cosa non è poi tanto diversa quando si parla con gli adulti o quando si parla con se stessi. In definitiva lo spunto mi viene dall’essere stato bambino e adolescente e dall’aver cominciato presto a farmi delle domande che, per il mio bene o per il mio male, non hanno mai cessato di occupare la mia mente.

I bambini, a un certo momento della loro crescita, vogliono sapere di tutto, da dove vengono loro e da dove veniamo noi tutti, come è nato il mondo, cosa avviene di quelli che muoiono. Per lo più i loro interlocutori adulti hanno delle risposte preparate, che essi stessi sentono a volte come convenzionali, prefabbricate, ma che ritengono necessarie e adeguate appunto per dei bambini. Anziché lasciarsi raggiungere personalmente dalle domande, le dirottano su quella che passa per l’opinione corrente, con lo svantaggio però che di opinioni ne corree più d’una, ciò che sgonfia ben presto le risposte di tutta la loro perentorietà agli occhi (spesso piuttosto svegli) dei destinatari.

Ciò che mi chiedo è se si trovano le parole per dire questa semplice verità (e se possiamo consentirci di dirla ai bambini): che non sappiamo con certezza “da dove” e “perché”, che su tutte queste cose gli uomini tramandano da tempi immemorabili dei racconti straordinari, e che questi racconti sono molti e diversi tra i diversi popoli della terra. Non dico che il genitore o l’educatore debba escludersi da tutto questo, come se una risposta valesse l’altra e si dovesse solo registrare la relatività dei punti di vista. Al contrario, motiverà le convinzioni (se ne ha) che gli derivano dalla sua fede religiosa e dalla sua cultura scientifica e filosofica, dalle sue personali riflessioni. Ma nello stesso tempo farà partecipe anche il bambino della nostra comune condizione di uomini, a cui lo spettacolo del mondo è stato assegnato senza accompagnamento di didascalie.

Si dice giustamente che i bambini esigono certezze: se le daranno, si schiereranno, nella nostra cultura non potranno evitare il conflitto tra le storie della religione e quelle della scienza, così prenderanno posizione, salvo poi ridiscutere tutto daccapo con se stessi, i loro coetanei e i loro educatori. Così impareranno a convivere con una certa inquietudine mentale, con le domande. E’ così che si cresce.

Ma in realtà il problema è degli adulti e della loro metafisica. I bambini sollevano la domanda, ma gli adulti non reggono il problema. Non sanno cosa dire perché non sanno cosa pensare, perché da tempo hanno scansato per se stessi le domande. Le hanno lasciate al prete oppure alla scienza, o a quelle “filosofie” totali che svolgono una funzione analoga. I bambini crescono e imparano a fare lo stesso, a non fare più domande. Così, da adulti, si comportano come i bambini, che cercano risposte rassicuranti dal genitori o dai maestri. Adesso le cercano (ma le cercano ancora? o se le lasciano solo ricordare?) da adulti qualificati.

Tutti abbiamo bisogno di certezze e c’è una fede dei cosiddetti “non credenti”. Ma si tratta di una fede spontanea, non verbalizzata, fede nel mondo e nelle abitudini della natura e delle cose, nel loro perseverare entro un certo ritmo, un certo stile di quiete e di movimento; ma anche fede profonda, spesso immotivabile, nella realtà e nella differenza del bene e del male, nelle ragioni della nostra fedeltà o infedeltà alle nostre tradizioni o delle nostre aspettative in chi ci seguirà. Questa fede ci è necessaria per vivere. La fede-dottrina è un’altra cosa.

La fede-dottrina è caratterizzata dal fatto che – essendo un prodotto di pensieri già da gran tempo pensati e riciclati – si impone ai bambini e agli adulti come una “risposta che precede Ia domanda”, una risposta autoritaria che consolida i propri contenuti con la solennità arcaica del contesto rituale e con una implicita minaccia per chi si esclude e verrà lasciato al suo destino. Quando i contrasti della vita mettono in crisi le certezze e costringono a modifIcarle o a scegliere, spesso gli adulti hanno disagio a dare motivazioni verbali, cioè in fondo a pensare e a formulare le domande. Provano ritegno come verso atteggiamenti adolescenziali, immaturi, come chi sa cosa sono le cose che contano; o provano inquietudine, come chi si ritrova da solo. In un paese come il nostro, abituato alla gestione monopolistica di quello che si deve credere, mettere in discussione “la fede” sembra un atteggiamento troppo fatuo o troppo superbo. Di ciò di cui solo gli autorizzati possono parlare si deve tacere. Nasce anche di qui quell’indifferentismo religioso e metafisico che caratterizza tutto un popolo che si considera cristiano per diritto di nascita, soddisfatto di liberare cosi il proprio animo per le “cose concrete”.

Tutti viviamo e ci lasciamo vivere in quello che chiameremo il “mondo naturale” della fede spontanea, ma i bambini e gli adolescenti sono freschi di meraviglia per il mondo che scoprono e non hanno ritegno a porre domande a tutto campo, a contestare anche, quando i diversi racconti che ascoltano a casa e a scuola si contraddicono. E’ su questa anarchia che la “dottrina” viene a mettere ordine, allo stesso modo in cui le vecchie maestre mettevano giustamente in riga e nei quadretti le catene ondeggianti e caotiche delle nostre prime lettere e parole scritte. E’ vero che i bambini hanno bisogno di certezze e che nelle loro domande, fino a una certa età almeno, esprimono più che altro il bisogno di essere rassicurati. Ma questo bisogno è più la conferma di un mondo amico e protettivo che non di verità metafIsiche. Più che di adulti “credenti” hanno bisogno di adulti presenti, compartecipi di quell’avventura che anche per loro è incominciata. In un certo senso i bambini, che domandano di tutto, che prorompono di emozioni, non si stupiscono di niente e trovano del tutto “naturale” crescere circondati da galline e da quadrupedi o invece, in città, da meccanismi semoventi a quattro ruote. Questa ovvietà del mondo naturale si preserva in certa misura lungo tutta la vita e solo l’esercizio “spaesante” di una cultura problematica ci sollecita a guardare l’ovvio come singolare e stupefacente, a scoprire il mondo in cui viviamo come del tutto logico e al tempo stesso strano. Non è forse il caso di bloccare questo sentimento nel bambino che cresce. Nel frattempo però può avvenire a chiunque di guardare senza stupore alle cose più strane di tutte, come la luna e le stelle, che si confondono con l’illuminazione cittadina. Di questa specie di usura caratteristica del diventare adulti non è responsabile principalmente la dottrina, quanto piuttosto la prassi della vita quotidiana che ci sollecita a selezionare o a “scaricare” ciò che serve o non serve alla conduzione ordinaria della vita. Gli antichi fIlosofi contrapponevano perciò le attività rivolte ai bisogni elementari o anche la saggezza pratica e politica del vivere da cittadini alla contemplazione ammirata di ciò che sovrasta il mondo umano e in cui vedevano manifestarsi l’eternità.

La metafisica antica e moderna ha sempre cercato di dare risposte razionali alle domande sull’origine e il senso di tutto ciò che è, di esaltare il mondo esistente nella pienezza delle sue motivazioni, dei suoi fondamenti e della sua causa prima. Ma la filosofia ha anche scavato nel rovescio di questa pienezza, nel vuoto aperto dallo stupore più originario, quello che ci rende palpabile il negativo di ogni positività, e che si formula nella domanda “perché l’ente piuttosto che il nulla”.

Da sempre la metafisica degli adulti (intendo qui quella dei filosofi e dei teologi), come metafisica della positività, ha voluto spegnere in anticipo questa domanda (insieme a tutte le altre) che tuttavia – verbalizzata in molti modi – percorre le pagine non solo di molti filosofi, ma dei poeti e forse anche degli uomini che coltivano una religiosità autentica. Anche di certi scienziati, quando si domandano se si debba necessariamente dare una “causa” del tutto, come la si cerca per tutti i singoli enti (Barrow).

Anche noi non ci proponiamo di cercare una risposta a queste domande ma vogliamo capire se la trasmissione dei nostri interrogativi e delle nostre inquietudini non debba accompagnare quella trasmissione  del sapere e delle credenze che appartiene alla nostra funzione di educatori; se cioè la coltivazione della domanda prima che l’amministrazione e la somministrazione della risposta non debba costituire il nucleo stesso dell’educazione.